Non ho tempo di capire di essere arrivata che l’Africa mi porta via.
Come Dorothy, senza aver tempo di pensare, è scaraventata da un tornado nel regno di Oz, così la prima nuvola di sabbia sollevata dalla jeep, mi fa volare fino a qua, al paese del “ci conosciamo da sempre”.
In un batter di ciglia, l’aria di sabbia mi prende le mani e mi fa danzare per togliermi di dosso tutto. Non arriva nemmeno il bagaglio. Mi lascia nuda, ma non indifesa; nuda, ma non sola. Calda e protettiva, questa aria di Africa mi bacia sulla fronte e rende leggero tutto ciò che non lo era. Anche il mio corpo.
Resto solo occhi. Solo quelli servono qui.
E così si parte.
Occhi, occhi, occhi.
Curiosi, spalancati, affamati.
Guarda!
Là c’è un ghepardo! Sotto l’albero si vede la coda.
Guarda! Scatta!
Sbucano le giraffe dagli arbusti.
Girati! Guarda! Scatta!
Ci sono le zebre sulla strada.
Frena! Girati! Guarda! Scatta!
Gli elefanti si rinfrescano nella pozza.
Piano! Frena! Girati! Guarda! Scatta!
Noi, come tutti i turisti, abbiamo vissuto di corsa per paura di perderci qualcosa; elenco alla mano dove spuntare gli animali avvistati.
Visto! Fatto!
Ma l’Africa va con calma.
La sera, a bordo della pozza, la giraffa mastica. Lentamente.
La zebra sbatte le palpebre. Apre. Chiude.
Il rinoceronte beve. A lungo. Immobile.
Gli springbok alzano un orecchio. Poi lo abbassano.
Silenzio.
Si sente un passo pesante. Uno, due. Arriva l’elefante. Piano.
Gli altri gli fanno spazio, non ha bisogno di chiedere.
Scende dentro l’acqua. Il grande orecchio sbatte. Avanti. Indietro.
Un ruggito apre la notte.
Immobili. Tutti.
Poi ognuno riprende il suo da fare. Lentamente.
Sopra di noi, stelle, stelle, stelle.
Devo sforzarmi di ricordare che, solo qualche giorno fa in realtà, correvo sempre anche io. Sembra un tempo infinitamente lontano. Correvo dentro di me, seguendo pensieri che ora, qui, sotto queste stelle, non ricordo neppure.
Corriamo per tentare di avere tutto sotto controllo, per sentirci a posto, per scansare paura e dolore. Per non guardarci dentro, soprattutto.
Consumiamo tantissime energie per nascondere a noi stessi chi siamo davvero, cosa ci fa bene davvero. Fatichiamo per recintare i nostri sentimenti, per tenere a freno la nostra libertà.
Ma l’Africa va con calma e non mi permette più di nascondermi. Mi è venuta a prendere dentro, dove stavo sotterrata.
E’ antica, l’Africa. E’ primitiva, arcaica, profonda. Non conosce l’evoluzione. Anche gli animali sono rimasti primordiali. Cosa ci fai giraffa, con quel collo lungo e quelle zampe dinoccolate? Da noi, finiresti schiacciata da un tir in un attimo. E tu, struzzo, tutto corpo, gambe e collo esili e zampe che sembrano quelle di un dinosauro, che senso ha il tuo esserci, ancora così antico?
L’elefante è tutto una piega di storia incisa nella pelle. Non ha niente di efficace, funzionale, competitivo. Non sta al passo con niente di moderno. Perde tantissimo tempo solo per bere con quella lunga e inadatta proboscide.
Ma resto a guardarlo per ore e ore e lascio che l’anima antica dell’Africa venga a tirar fuori quello che sta nel mio profondo.
Per questo, fa male l’Africa. Mi crepa come quella sua terra arida e senz’acqua, scoprendo quelle ferite che con cura, ogni giorno, cerco di nascondere. Va dritta al mio nodo profondo, mi mette di fronte alla mia solitudine, alle mancanze che mi addolorano fin da quando sono.
Fa male l’Africa, ma non mi lascia sola e mi indica la strada.
Forse sarà perché quell’alternarsi di alti dossi e profonde cunette mi spinge a calzare l’acceleratore per far sobbalzare lo stomaco ed aprire lo sguardo, arrivata in cima, più di qualsiasi grandangolo.
Forse sarà perché in Africa ci sono cancelli nel niente che non delimitano, nè recintano ma aprono e ti danno il permesso di andare.
Forse sarà perchè, inaspettatamente, capita di incontrare uomini, soli, che camminano nel nulla. Mi preoccupo: “Dove dormirà stanotte?”. Ma lui saluta e mi sorride, al vento tutte le paure.
Forse sarà perché i paesaggi, che non conoscono segni dell’uomo, scorrono uno dopo l’altro come film che non hanno mai titoli di coda.
Forse sarà perché ho viaggiato con amicifratelli capaci di intrecciarsi in un’unica anima con me. Ridere, piangere, stare in silenzio sempre all’unisono. Un incrocio tra i Quattro Moschettieri, uno per tutti e tutti per uno, e la Banda Bassotti, mai capaci di portare a termine un pasticcio senza essere scoperti. Una mano sulla mia spalla che ancora sento, calda e protettiva, a sostenere le mie lacrime.
Forse sarà per queste cose che l’Africa sgretola i divieti, i limiti, le paure a cui ci aggrappiamo per non lasciarci andare e non volare di gioia come potremmo.
Ho volato in questi giorni. Non lo dimenticherò.
Mi porto via la sabbia del deserto. Voglio continuare a sentirla tra i denti, nei capelli, fra le dita, nelle scarpe… così che mi aiuti a volare ancora.
Volo, volo, volo.
di Chiara Ciaschini
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